lunedì 6 febbraio 2017

Mediterraneo: la frontiera più alta e pericolosa di qualsiasi muro nel libro di Alessandro Leogrande

Ogni Viaggio è a sé. Ogni ferita è a sé. Ogni salvezza è a sé. Così come ogni incontro è una 'frontiera' da attraversare

Molte ricerche negli ultimi anni hanno assodato che il tema della migrazione è vittima spesso di una narrazione superficiale, di applicazioni improprie di senso e dell’abuso di stereotipi, semplificazioni e generalizzazioni che producono rappresentazioni fuorvianti e falsate e, di conseguenza, formano un’opinione pubblica distorta e giudicante.
Alessandro Leogrande ne La frontiera (Feltrinelli, pag. 316) prova a dare un quadro complessivo del fenomeno migratorio verso l’Italia sfuggendo a luoghi comuni e approssimazioni e offrendo al lettore una decostruzione dell’immaginario dei migranti come insieme omogeneo, puntando sull’individualità. 
Sin dalle prime pagine sfida l’oblio di tante vite sommerse e, narrando in prima persona, porta chi legge nel cuore degli incontri, sempre diversi, vissuti tra il migrante che racconta la sua storia e l’autore che la ascolta, la rielabora e si interroga su come non reiterare il dolore delle tragedie e far emergere l’unicità di ogni ferita. 
Di fronte alla violenza subita dai migranti durante gli esodi e alle innumerevoli stragi avvenute nel Mediterraneo, infatti, Leogrande si chiede: “fino a che punto è lecito scavare, porre e porsi domande, interrogare i superstiti?” E quando si reca a Lampedusa, a un anno dal grande naufragio del 3 ottobre 2013, in cui morirono 366 persone (360 eritrei, 6 etiopi) di fronte l’Isola del Conigli, si domanda: “dove si colloca il confine tra il ricordo e la sua pietrificazione, o peggio: la sua monumentalizzazione?”. Inoltre si preoccupa di come evitare la spettacolarizzazione e cosa raccontare per sottrarsi a tale rischio?
Evitando classificazioni standardizzate, ma valorizzando la chiave della soggettività, dunque, Leogrande ricostruisce una pagina di Storia dell’Italia che si incontra con le Storie di tanti paesi, dalla Siria all’Eritrea, dalla Libia all’Egitto. Sceglie di mettere in ordine le vicende legate agli arrivi di migliaia di persone sulle nostre coste e nelle nostre città e restituire il vissuto dei protagonisti di questi Viaggi sulla rotta di terra “dei Balcani” ma soprattutto nel Mediterraneo. 
Nave per nave, gommone per gommone, naufragio per naufragio. 
Si, perché ogni Viaggio è a sé. Ogni ferita è a sé. Ogni salvezza è a sé. Così come, forse, per l’autore ogni incontro è una diversa frontiera da attraversare.


Leogrande si fa viaggiatore e oltrepassa numerose “frontiere” per ricostruire gli stermini silenziosi della nostra epoca. È proprio dal silenzio che avvolge questa “mattanza continua” che parte la sua voglia di narrare queste biografie, nella loro inafferrabilità, e la sua volontà di farlo con una scrittura ibrida che è la letteratura non-fiction, una letteratura anch’essa di frontiera. Cronaca, ma anche ragionamento, umanità, empatia. Sullo stile di Ryzsard Kapuscinki o di Svjatlana Aleksievič. E così porta la riflessione “su come la Storia devasti le storie, ma anche su come le storie rappresentino uno spaccato, soggettivo e individuale, della Storia”.
Il lettore, dunque, segue l’autore nei suoi incontri e prova la stessa impotenza di fronte a tante morti innocenti e ad “atti di ignavia o omissione di soccorso” in cui non basta più provare pietà ma andrebbero accertate le responsabilità delle rispettive Marine nazionali, così come quelle della politica. Troppi naufragi rimangono privi di accertamento, così come tante mattanze continuano in innumerevoli forme, anche lontano dal Mediterraneo, mentre “le politiche europee e italiane restano una somma ipocrita di contraddizioni, governata dalla retorica dell’arbitraria divisione tra migranti economici e rifugiati, e dagli accordi presi nel Processo di Khartoum con i paesi di provenienza e di transito al fine di contenere l’esodo, anche tramite la sottoscrizione di accordi con governi dittatoriali”.
Molto spazio nel libro è, infatti, dedicato all’Eritrea, ex colonia italiana oggi vittima della dittatura di Isaias Afewerki. Leggendo la parte dedicata alla massiccia migrazione eritrea, non solo si scopre la lacerazione di una generazione costretta al servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato, imposto da una dittatura – da cui si fugge - nata da una guerra di liberazione in una terra che, come la Somalia, è stata abbandonata dai coloni italiani senza Stato, ma si entra anche nella dinamica del Viaggio che non solo è lungo, ma anche lento. Si percorrono insieme ai testimoni e ai superstiti le tappe intermedie e la fatica di raccogliere soldi per poter continuare a viaggiare, tappa dopo tappa, spesso anno dopo anno. 
I racconti peggiori del Viaggio riguardano la Libia, tappa necessaria per chi sceglie di attraversare la frontiera liquida del Mediterraneo, ma anche il Sinai, in Egitto, diventato luogo di rapimenti e vendita di organi. Leggendo le testimonianze di alcuni ci si imbatte nelle violenze subite nelle carceri o durante il percorso dagli stessi trafficanti incapaci spesso di gestire il proprio “carico”, così come si scopre il complesso mondo degli scafisti, spesso anche minori. 
Chi decide di partire non può tornate indietro. Mai. Lo dice anche una delle 28 leggi del Viaggio riportate a pag. 95, messe insieme da due etiopi rifugiati a Roma, Sinti e Dag, e ora condivise da molti.  
A essere condiviso da tanti migranti è anche il numero di telefono di Don Mussie Zerai, missionario eritreo diventato punto di riferimento per chi parte dal Corno d’Africa, che si trova scritto sui muri delle prigioni libiche. Così come quello di Alganesh Fessaha, italo-eritrea che si batte per liberare ostaggi dal Sinai, spesso scritto sulle pareti dei camion. 
Uno dei testimoni principali che attraversa tutto il libro è il curdo iracheno Shorsh, fuggito nel 1997 dal regime di Saddam Hussein, poi tornato in Iraq e in seguito di nuovo venuto in Italia, a Bolzano, un’altra frontiera, dove i suoi figli oggi studiano il tedesco. Importante è anche l’incontro con Gabriel Tzeggai, nato e cresciuto in una famiglia dell’élite intellettuale di Asmara e formatosi leggendo gli stessi libri letti sull’altra sponda del Mediterraneo, che fugge dalla dittatura senza lasciare un archivio di giornali eritrei in lingua italiana dei tempi del colonialismo pubblicati in Eritrea che oggi vorrebbe mettere a disposizione di tutti creando un’emeroteca a Roma. 
Nella parte finale del libro lo sguardo si apre su altri luoghi centrali nel racconto della migrazione odierna, come l’accampamento di Patrasso, in Grecia, preso continuamente di mira da Alba Dorata, dove centinaia di migranti restano mesi in attesa di imbarcarsi per l’Italia, tutti con una busta di plastica con dentro le scarpe buone e i vestiti asciutti da indossare all’arrivo in Europa. Oppure Tor Pignattara, quartiere di Roma trasformatosi proprio in seguito all’arrivo di diverse comunità in città, in cui vivono tanti migranti che portano ancora negli occhi il ricordo di corpi di amici e parenti lasciati senza vita nel percorso, inzuppati di acqua, sale e gasolio. 
“I flussi cambiano sotto i nostri occhi molto rapidamente – scrive Leogrande -. Cambiano i posti di frontiera, cambiano le rotte. Cambiano le cause che li determinano. Ogni nuovo conflitto che deflagra e ogni dittatura che implode genera una nuova ondata”. 
La storia della migrazione, infatti, continua. Ci siamo dentro. 

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