domenica 27 agosto 2017

Paolo Fresu e il Nuovo Corso del jazz italiano, 'interplay' tra musica e luoghi

Paolo Fresu è il jazzista italiano più noto e più impegnato a livello internazionale ed è al contempo il jazzista italiano più radicato alla sua terra, la Sardegna. Le sue estati sono sia un lungo peregrinare per l’Italia e all’estero per concerti, sia il momento del ritorno annuale a casa, a Berchidda, dove da trent’anni si svolge il suo festival “Time in jazz”. Una doppia anima che forse è scritta nelle sue origini isolane che lo hanno sempre spinto, con ostinazione, fuori dall’isola per condividere con il mondo le emozioni della vita e della sua arte, ma che al contempo lo riportano, con la stessa ostinazione, alle radici contadine, a quei paesaggi agresti che sono diventati i palcoscenici più ambiti per i suoni della sua tromba e la musica dei suoi ospiti. 

Paolo, i concenti sui treni, nelle stazioni, sui trattori, in cima ai monti, in laguna, nelle chiese, sugli alberi hanno fatto la storia del festival di Berchidda. Quali sono stati i momenti più emozionanti della trentesima edizione appena conclusa?
Tantissimi. E’ difficile dirlo. Forse l’evento di chiusura in cui ho suonato con il percussionista Philippe Garcia, io su una barca e lui su un’altra, sulla laguna di San Teodoro, al tramonto, con cavalli, pesci e gabbiani intorno a noi e il pubblico in religioso silenzio. Ma anche il concerto con Uri Caine alla Torre di San Giovanni a Posada e la festa finale in cui tutti ballavano in strada. 
Come è nato “Time in jazz”?
Avevo 27 anni quando il sindaco di Berchidda mi chiese di organizzare qualcosa di stabile sul territorio. Pensai subito che bisognava per forza trovare una chiave per fare qualcosa di diverso dagli altri festival.



Com’erano le estati della tua infanzia?
Il mio papà era un pastore. Vivevamo in campagna, il mio luogo dei sogni, tra gli animali, gli alberi piegati dal vento e le rocce di granito che avevano forme straordinarie e mi permettevano di inventare storie. Nelle ore calde però non potevo uscire di casa. Mi raccontavano che c’era sa mama ‘e su sole, la mamma del sole, che era cattiva e si prendeva i bambini. 
Come trascorrevi i mesi estivi in adolescenza?
Li trascorrevo al mare con la famiglia. Ci arrivavamo in macchina senza aria condizionata con anguria e pasta scotta in borsa, sotto il sole, dopo lunghe attese al passaggio al livello. Mangiavamo insieme, ma poi non potevo fare il bagno prima della digestione. Era molto poetico, ma non ho mai imparato a nuotare. Non sono un pesce d’acqua come mia moglie che è di Alghero. Alcune volte andavamo anche in campeggio sulla punta del monte Limbara.
Come passavano le serate a Berchidda?
Ricordo che tutti uscivano di casa la sera con una sediolina per sedersi in strada e chiacchierare. Si stava lì e basta. 



Avevi un animale preferito?
Il cane, ne ho avuti tanti negli anni. Ricordo che il mio cane preferito aveva azzannato le pecore del vicino e mio padre dovette risarcirlo. Poi il cane fu portato via. Fu un dramma per me. Avevo sei o sette anni. 
L’idea di portare il jazz a L’Aquila e nelle terre del centro Italia devastate dai terremoti ha avuto un gran riscontro di partecipazione. Alla base c’è lo stesso concetto di “Time in jazz”, ossia adattare la musica al territorio. 
Sì, quando ho concepito gli eventi a L’Aquila mi sono valso dell’esperienza di Berchidda. Le idee si evolvono nel tempo e prendono forma anche grazie al lavoro volontario di tanti. 
Cosa state organizzando per quest’anno, anche con il supporto del Mibact, delle associazioni I-Jazz, MIDJ e della Casa del Jazz?
Quest’anno ci saranno quattro eventi: il 31 agosto a Scheggino in Umbria, il 1 settembre a Camerino nelle Marche, il 2 ad Amatrice e il 3 a L’Aquila dove suoneremo anche in luoghi che l’anno scorso erano ancora inaccessibili. Su venti palchi. Ad Amatrice aprirò io nel pomeriggio nel luogo dove sorgerà lo spazio polivalente del Progetto Sorriso sostenuto anche dal mondo del cinema e del teatro. In quattro giorni suoneranno 750 musicisti in 140 concerti, con l’aiuto dei direttori dei festival a dirigere i palchi.
Cosa ha spinto così tanti musicisti a partecipare?
La passione e il bisogno di solidarietà. Non ci può essere passione senza solidarietà. E’ un fatto nobile. Questi straordinari eventi, che sono come una grande jazz-session dove però ognuno porta il suo progetto, sono stati anche documentati in libri. Quest’anno sarà prodotto il quarto. 
In questi quattro volumi c’è la storia del jazz italiano.
Sì, ed è un’operazione unica nel panorama europeo e mondiale. Dico spesso che il jazz italiano si divide nel prima e dopo L’Aquila. E’ come se fosse nato un Nuovo Corso. Oggi più che mai il jazz non è più una musica di nicchia. Il jazz è una musica corale capace di mobilitarsi e di unire. Di creare coesione. Fa parte del nostro Dna. È una comunità che si muove. Tutti i musicisti che vi partecipano sono considerati uguali. 
Pensi che con un altro tipo di musica non ci sarebbe stato lo stesso coinvolgimento?
Non credo. Il jazz ha un impianto per cui si adatta ai luoghi che la ospitano. I musicisti a L’Aquila hanno suonato ovunque, dalle finestre, sui ponti, in spazi che solo il jazz è capace di suggerire. Organizzare l’evento a L’Aquila sembrava una follia all’inizio, oggi invece è una realtà e anche la città è più pronta ad accogliere un grande pubblico.
Cosa hai letto ultimamente?
Vari libri di musica e “Abbracciare gli alberi” di Giuseppe Barbera pubblicato dal Saggiatore. Mi piacerebbe organizzare un evento interamente dedicato ai concerti sugli alberi.

Il Mattino - 25/08/2017

Nessun commento:

Posta un commento