domenica 3 settembre 2017

Moni Ovadia e il poeta greco Jannis Ritsos

Pur essendo più conosciuto per il lavoro di ricerca, rielaborazione e rappresentazione di opere dedicate alla cultura e alla tradizione ebraica, Movi Ovadia ha uno smisurato amore per la Grecia, la sua storia e la sua arte. Ne sono testimonianza le pièce e i reading dedicati al poeta neoellenico Jannis Ritsos come “La cantata della grecità. L’età dei miti senza età” con cui l’ha celebrato questa estate in un tour nei teatri di pietra italiani, da Ostia a Paestum, da Viterbo a Baia.


Moni, che estate sta vivendo?
A parte “La cantata della grecità”, per me è un’estate di riposo e di ristrutturazione perché vengo da un inverno e una primavera faticosi sul piano fisico dopo la tournée de “Il Casellante”. Anche portare in giro Ritsos è stato faticoso per gli spostamenti perché le date non erano conseguenziali, ma è sempre un’esperienza toccante vedere il pubblico che riempie questi teatri non per assistere a spettacoli di grido molto promossi, ma per ascoltare parole sui miti greci nella loro varietà umana e fragilità, spogliati dalla retorica, precedute da altre parole esplicative dei luoghi che le ospitano. 
Lei è nato in Bulgaria in una famiglia ebraica, ma sin da piccolo ha vissuto in Italia. Come nasce il suo amore per la Grecia?
Da sempre ho una passione per la grecità e il mondo del Levante mediterraneo. Anche questa è legata alle mie origini. I miei nonni paterni erano di Smirne e il mio bis nonno di Salonicco. La nostra quotidianità era intrisa da questa cultura.
E l’ammirazione per l’opera di Jannis Ritsos?
Ritsos è l’uomo che mi racconta dell’umanità che vorrei. Nei suoi poemi c’è la pietas che ha nei confronti dell’uomo, ma anche degli animali, delle cose. In lui c’è un riconoscimento profondo dell’umano e dell’inumano. Lo sento fratello e padre. Per me è un paradigma, un esempio. E’ il mio poeta preferito. Ha avuto una vita di sofferenze inenarrabili, carcere e torture durante il periodo del fascismo greco, un uomo di una statura formidabile, nobilissimo. E’ poco conosciuto in Italia, pur essendo morto solo nel 1990. Consiglio a tutti di leggere la sua raccolta di 17 poemi “Quarta dimensione” pubblicata in Italia da Nicola Crocetti. 
Lei parla greco?
Sì, ho studiato da solo il greco moderno, il dimotiki. Lo parlo quando vado in Grecia. Sono anche un grande appassionato di rebetiko che rappresenta la cultura greca intrisa di Oriente.


Le capita di fare anche vacanze in Grecia?
Ne ho fatte tante, conoscitive, anni fa. Ebbi la Sindrome di Stendhal in un mercato del pesce ad Atene. Lì ho deciso di imparare la lingua. Passavo il tempo nelle taverne con gli anziani. Cercavo di parlare con loro per cogliere l’humus della gente, il modo di pensare, per catturare espressioni e cadenze. Fu un’esperienza galvanizzante. Poi mi piace il mare, guardare i paesaggi marini, ma ho evitato di andarci durante la dittatura, dal ’67. Ci sono tornato solo dopo, penso nel ‘77. Non potevo fare le vacanze in una terra in cui persone come me, cantanti, attori, poeti, erano carcerati. La dittatura proibì di cantare il rebetiko e di suonare il buzuki, tant’è che i musicisti s’inventarono il baglamas, un piccolo mandolino che si poteva facilmente nascondere in borsa.  
E oggi ci torna spesso?
Oggi la Grecia ha subito un cambiamento radicale in cui le vecchie taverne sono diventate pub all’americana. Non è più la Grecia che cercavo io. C’è stata una perdita d’identità, un’omologazione. C’è un contrasto violento tra il paesaggio greco legato alla memoria e ai poeti e le nuove forme di turismo sfacciato. Oggi ci torno per gli amici e vado nei luoghi non toccati dalla pandemia del turismo.
Dove si è riposato quest’anno?
In Sicilia, a Siracusa, un’altra terra che mi piace per la sua civiltà grandiosa. Mi piaceva andare nelle Isole Eolie, ma sono cambiate anche quelle. Io ci andavo quando ancora non c’era la luce elettrica. 
Ci tornerà anche per riportare le “Supplici” di Eschilo questo mese?
Sì, saranno delle “Supplici” ridotte rispetto alla versione con 56 elementi, in siciliano e neoellenico, del 2015 con Mario Incudine, ma sono felice di riprendere questa opera che mi ha permesso di collaborare con tanti giovani talenti che oggi considero i figli che non ho avuto. 
Ha mai pensato di costruire una scuola per giovani artisti che vogliono seguire il suo esempio?
Mi sarebbe piaciuto formare giovani, ma non ne ho avuto mai la possibilità.  Sono un uomo scomodo. Non sono uno ‘yes man’. Penso con la mia testa, non lo mando a dire. Se avessi avuto un teatro sovvenzionato, avrei costruito volentieri uno spazio per giovani. Se fossi vissuto in Germania o in Francia sarebbe stato diverso, ma sono nato cittadino italiano. Mio padre era italiano. Mi è capitato questo destino. Non lo rimpiango, peccato solo poter fare poco per l’Italia, sarebbe stato un valore.
Come viene percepito nel mondo del teatro?
Occupandomi di cose internazionali vengo percepito come un fenomeno strano, bizzarro. Non vengo riconosciuto. Dario Fo ha avuto vita più facile perché lui era molto italiano, quello che faceva veniva facilmente riconosciuto. Anche gli americani decidono loro quello che esiste o non esiste. Mi è capitato di sentire esclamazioni di stupore nei miei confronti. Un artista di cultura yiddish in Italia? Doesn’t make sense. Ebrei in Italia, davvero? Eppure qui c’è la più antica comunità ebraica della diaspora. Dagli italiani ci si aspetta solo la commedia dell’arte!
Cosa sta leggendo?
La storia di un sarto. Nel mondo ebraico i sarti erano considerati l’ultimo gradino della scala sociale, eppure loro si ritenevano i più vicini al creatore perché creavano abiti dal nulla. 

Il Mattino - 22/08/2017 


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